In un bell'articolo (Fitness Culturale) di Antonio Carlo Larizza su Nòva 24 Ora, viene citata l’edizione 2007 del rapporto The universum graduate survey.
Detto che l'articolo in questione è da leggere tutto per i nostri ragionamenti segnaliamo che il 61% del totale del campione (laureati europei, risposta multipla) considera "formazione e aggiornamento gratuiti" i migliori benefit (60% straordinari pagati; 25% ricevere prestazioni mediche a condizioni vantaggiose; 17% possibilità di guidare un’auto aziendale. E che secondo uno studio del Centro di ricerca sull’organizzazione aziendale dell’Università Bocconi, un terzo dei lavoratori considera l’aggiornamento e la crescita professionale più importante della retribuzione.
domenica 29 luglio 2007
Lavoro precario
Associato al lavoro c’è sempre più il concetto di precarietà.
I risultati di un rapporto dell’International Labour Organization (ILO, 2004) dicono che gli ultimi 20 anni hanno visto lievitare in maniera significativa la durata e la profondità delle crisi economiche, l’instabilità del lavoro, l’insicurezza dei lavoratori, la frustrazione associata alla perdita di STATUS.
Detto che il rapporto è stato redatto sulla base dei principali indicatori tratti dalle politiche nazionali di 90 paesi, di un’inchiesta che ha coinvolto 48 mila lavoratori di 15 paesi e di una ricerca che ha coinvolto oltre 10 mila imprese di 11 paesi, possiamo aggiungere che l’ipotesi di fondo che i ricercatori dell’ILO hanno inteso verificare è quella secondo la quale il lavoro non può essere valutato soltanto sulla base del tasso di occupazione, del livello di reddito, della flessibilità.
Gli indicatori qualitativi come per l’appunto la stabilità e la sicurezza dell’impiego, i diritti e le tutele normative, scrivono gli autori, sono indispensabili per definire in maniera più compiuta il livello di benessere dei lavoratori dato che esso non dipende solo dalla possibilità di poter disporre di un reddito dignitoso ma anche, soprattutto, dal livello di sicurezza e di protezione associato al reddito.
Nel rapporto vengono individuati sette indicatori che determinano l’indice di sicurezza economica (Economic Security Index ESI) e precisamente l’occupabilità, il lavoro regolare e non soggetto a licenziamenti arbitrari, la salvaguardia della salute e la tutela in campo infortunistico, la crescita professionale, l’acquisizione di nuove competenze e conoscenze, la protezione del potere d’acquisto dei salari, la presenza di soggetti forti di rappresentanza.
I 90 paesi analizzati sono stati invece suddivisi in quattro classi:
quelli d’avanguardia, perché caratterizzati da buone politiche, buone istituzioni e buoni risultati;
quelli pragmatici, perché presentano buoni risultati nonostante politiche e istituzioni non particolarmente attive;
quelli convenzionali, nei quali a buone politiche e istituzioni non corrispondono buoni risultati;
quelli dove c’è molto da fare, perché a scarsi risultati si associano politiche e istituzioni deboli.
I risultati?
I «quasi poveri» sono decisamente in aumento, così come la precarietà del lavoro e il livello di stress dei lavoratori.
Il tasso di scolarità e formazione si traduce in una diminuzione del tasso di benessere, fino a provocare quella che la ricerca ILO definisce «effetto di frustrazione legata allo STATUS», in tutti i casi nei quali le persone svolgono mansioni inferiori al livello delle loro capacità e qualifiche.
Detto in altri termini, è molto diffusa l’insoddisfazione conseguente all’asimmetria esistente tra il lavoro che concretamente si fa e i bisogni e le aspirazioni, in particolare tra i lavoratori maggiormente scolarizzati.
I risultati di un rapporto dell’International Labour Organization (ILO, 2004) dicono che gli ultimi 20 anni hanno visto lievitare in maniera significativa la durata e la profondità delle crisi economiche, l’instabilità del lavoro, l’insicurezza dei lavoratori, la frustrazione associata alla perdita di STATUS.
Detto che il rapporto è stato redatto sulla base dei principali indicatori tratti dalle politiche nazionali di 90 paesi, di un’inchiesta che ha coinvolto 48 mila lavoratori di 15 paesi e di una ricerca che ha coinvolto oltre 10 mila imprese di 11 paesi, possiamo aggiungere che l’ipotesi di fondo che i ricercatori dell’ILO hanno inteso verificare è quella secondo la quale il lavoro non può essere valutato soltanto sulla base del tasso di occupazione, del livello di reddito, della flessibilità.
Gli indicatori qualitativi come per l’appunto la stabilità e la sicurezza dell’impiego, i diritti e le tutele normative, scrivono gli autori, sono indispensabili per definire in maniera più compiuta il livello di benessere dei lavoratori dato che esso non dipende solo dalla possibilità di poter disporre di un reddito dignitoso ma anche, soprattutto, dal livello di sicurezza e di protezione associato al reddito.
Nel rapporto vengono individuati sette indicatori che determinano l’indice di sicurezza economica (Economic Security Index ESI) e precisamente l’occupabilità, il lavoro regolare e non soggetto a licenziamenti arbitrari, la salvaguardia della salute e la tutela in campo infortunistico, la crescita professionale, l’acquisizione di nuove competenze e conoscenze, la protezione del potere d’acquisto dei salari, la presenza di soggetti forti di rappresentanza.
I 90 paesi analizzati sono stati invece suddivisi in quattro classi:
quelli d’avanguardia, perché caratterizzati da buone politiche, buone istituzioni e buoni risultati;
quelli pragmatici, perché presentano buoni risultati nonostante politiche e istituzioni non particolarmente attive;
quelli convenzionali, nei quali a buone politiche e istituzioni non corrispondono buoni risultati;
quelli dove c’è molto da fare, perché a scarsi risultati si associano politiche e istituzioni deboli.
I risultati?
I «quasi poveri» sono decisamente in aumento, così come la precarietà del lavoro e il livello di stress dei lavoratori.
Il tasso di scolarità e formazione si traduce in una diminuzione del tasso di benessere, fino a provocare quella che la ricerca ILO definisce «effetto di frustrazione legata allo STATUS», in tutti i casi nei quali le persone svolgono mansioni inferiori al livello delle loro capacità e qualifiche.
Detto in altri termini, è molto diffusa l’insoddisfazione conseguente all’asimmetria esistente tra il lavoro che concretamente si fa e i bisogni e le aspirazioni, in particolare tra i lavoratori maggiormente scolarizzati.
Questioni di identità
Delusione e sfiducia sono i sentimenti predominanti, i soli capaci di accomunare donne e uomini di più generazioni. Si fa sempre più incombente il rischio di finire soffocati dall’impasto paludoso di competitività globale e disintegrazione sociale con il quale si è costretti quotidianamente a fare i conti. Mentre il caos, l’anomia, la violenza, spingono a dubitare degli ordinamenti e delle leggi, a mettere in discussione la saggezza dei padri, a rifuggire le responsabilità, a cercare rifugio nell’autorità e nei poteri forti.
A rendere ancora più intricata la faccenda ci sono poi le questioni di identità, quelle che investono le modalità con le quali ci si riconosce stabilmente nel tempo con altri.
Si tratta dell’insicurezza per certi versi più insidiosa e difficile da combattere, quella che è dentro ciascuna persona, che determina una condizione diffusa di sfiducia tormentosa, che ha a che fare con la percezione di se stessi nel mondo, con l’idea di cosa è importante e cosa invece non lo è.
I processi di modernizzazione, con particolare incidenza durante le fasi di transizione, scompaginano orizzonti, credenze, modi di vedere e interpretare il mondo; l’equazione «niente dura dunque niente ha valore» produce effetti devastanti sulla fiducia nel futuro, sulla voglia di partecipazione, sulle personalità.
A essere messe in crisi, fino al limite della rottura, sono le identità conquistate, costruite, alle quali ci si è abituati.
Modelli relazionali sempre più volatili, evanescenti, difficili da mantenere a fronte della solidità, a tratti persino della rigidità, della fase precedente sono in modi diversi il prodotto di tali processi, così come l’iperattivismo spesso inconcludente che accompagna le vite di un numero sempre più consistente di persone e la flessibilità delle reti sociali, che richiede una costante e non banale capacità di riconfigurare il proprio ruolo.
A rendere ancora più intricata la faccenda ci sono poi le questioni di identità, quelle che investono le modalità con le quali ci si riconosce stabilmente nel tempo con altri.
Si tratta dell’insicurezza per certi versi più insidiosa e difficile da combattere, quella che è dentro ciascuna persona, che determina una condizione diffusa di sfiducia tormentosa, che ha a che fare con la percezione di se stessi nel mondo, con l’idea di cosa è importante e cosa invece non lo è.
I processi di modernizzazione, con particolare incidenza durante le fasi di transizione, scompaginano orizzonti, credenze, modi di vedere e interpretare il mondo; l’equazione «niente dura dunque niente ha valore» produce effetti devastanti sulla fiducia nel futuro, sulla voglia di partecipazione, sulle personalità.
A essere messe in crisi, fino al limite della rottura, sono le identità conquistate, costruite, alle quali ci si è abituati.
Modelli relazionali sempre più volatili, evanescenti, difficili da mantenere a fronte della solidità, a tratti persino della rigidità, della fase precedente sono in modi diversi il prodotto di tali processi, così come l’iperattivismo spesso inconcludente che accompagna le vite di un numero sempre più consistente di persone e la flessibilità delle reti sociali, che richiede una costante e non banale capacità di riconfigurare il proprio ruolo.
L'uomo con la pistola e la signora di ferro
Insicurezza sociale. Svalutazione e precarizzazione del lavoro. Erosione del sistema di garanzie che va sotto il nome di stato sociale.
Molto comincia alla fine degli anni ’70, sotto la spinta del reaganismo e del thatcherismo.
Sono gli anni in cui ritorna in auge l’idea che il lavoro, quello operaio in primo luogo, non è altro che uno dei tanti strumenti della produzione.
Quando non serve, l’operaio va espulso dal ciclo produttivo; quando non regge più i ritmi, va sostituito, non molto diversamente da quanto accade con una qualunque macchina.
Nella metamorfosi dei modi di lavorare e produrre tra la gerarchia e la frammentazione del fordismo e la flessibile precarietà del postfordismo, la questione insicurezza diventa un carattere specifico dell’esistenza, un fenomeno che va molto al d là della nuova barbarie a cui si riferiva Benjamin negli anni ’30.
Molto comincia alla fine degli anni ’70, sotto la spinta del reaganismo e del thatcherismo.
Sono gli anni in cui ritorna in auge l’idea che il lavoro, quello operaio in primo luogo, non è altro che uno dei tanti strumenti della produzione.
Quando non serve, l’operaio va espulso dal ciclo produttivo; quando non regge più i ritmi, va sostituito, non molto diversamente da quanto accade con una qualunque macchina.
Nella metamorfosi dei modi di lavorare e produrre tra la gerarchia e la frammentazione del fordismo e la flessibile precarietà del postfordismo, la questione insicurezza diventa un carattere specifico dell’esistenza, un fenomeno che va molto al d là della nuova barbarie a cui si riferiva Benjamin negli anni ’30.
martedì 10 luglio 2007
I fattori portanti
Francois Jullien (Pensare l’efficacia – Laterza 2006) ricorda a propria volta l'Ulisse dalle mille risorse, l'Ulisse abile, “astuto”, ingegnoso, polytropos" che rappresenta l’archetipo dell’uomo che utilizza una razionalità diversa e una diversa abilità: "la metis […] “il fiuto”, così come si parla di fiuto negli affari. […] La metis è […] la capacità di trarre vantaggio dalle circostanze, di vedere come la situazione evolve e sfruttare in essa l’orientamento favorevole […] dare prova di metis significa scoprire i fattori “portanti” in seno alla situazione per lasciarsi trasportare da essi".
Eustazio, Ulisse e il polipo
Donatella Puliga e Claudia Piazzini (La memoria e la parola, Le Monnier) scrivono che "un antico commentatore dell’Odissea, il monaco bizantino Eustazio, paragonava Odisseo a un polipo, che per i Greci è l’animale astuto per eccellenza: possiede infatti la capacità di mimetizzarsi, assumendo il colore dell’ambiente che lo circonda e degli oggetti a cui si attacca; secerne inchiostro, con cui si nasconde al nemico; organizza trappole efficaci per catturare i pesci di cui si ciba, servendosi dei suoi lunghi tentacoli. I Greci chiamavano il polipo polyplokos, “dalle molte pieghe”, in riferimento ai numerosi tentacoli che lo dotano di infinita mobilità; una definizione assai vicina a quella di polytropos, “dai molti giri”.
Il paragone tra Odisseo e il polipo, suggerito da Eustazio, ci fa capire cos’era per i Greci la metis, l’astuzia: un’intelligenza pratica, l’accorta prudenza che consiste nel sapersi adattare a ogni situazione attraverso la mutevolezza".
Il paragone tra Odisseo e il polipo, suggerito da Eustazio, ci fa capire cos’era per i Greci la metis, l’astuzia: un’intelligenza pratica, l’accorta prudenza che consiste nel sapersi adattare a ogni situazione attraverso la mutevolezza".
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